Il paesaggio, le figure e i simboli del dipinto


Il paesaggio

Nel primo piano paesaggistico, il mondo è modulato come un'unica immensa sinfonia ed è sovrastato da una luce diafana,
che racchiude in sè la promessa di un fulgore sempre più radioso.

Arco sinistro

Nell'arco sinistro, le sfumature dei colori nei vari toni del verde ci comunicano la dolcezza, la freschezza, la soavità del creato.
Anche il filo d'erba, nella sua segreta armonia, si rivela un amoroso lavoro di Dio, una tenera espressione della sua passione per le creature che escono dalle sue mani.
S'intravede un sogno segreto, quasi un respiro: è lo spirito del Creatore che si rivela anche nelle creature.
Tutti gli esseri viventi devono la vita alla sua energia fecondatrice che dà loro sostanza, forma, bellezza.
Priva di abitazioni, la terra conserva ancora l'intatta verginità originaria, è il riflesso primigenio del sogno di Dio per il mondo che, con la sua Parola, ha plasmato.


Arco destro

Nell'arco di destra ombre cupe, grevi, lacerate da lampi, colori lividi in un cielo burrascoso si riflettono sul paesaggio sottostante, caricandolo di mestizia, di freddo, di oscurità: sono lo sfondo naturalistico del tradimento di Giuda.
Sembra un pianeta desolato.
La ridiventa solitaria.
L'uomo squarcia la tela mirabile della creazione spezzandone l'armonia.
Nonostante le apparenze, il peccato è bruttezza, disarmonia, squallore.
C'è un senso di attesa trepida, frammista di angoscia e di speranza.
Il tradimento, in agguato, sarà perdita, disperazione, morte solo per chi lo attua. Un albero, sullo sfondo, visualizza la fine drammatica del traditore.


Arco centrale

Nell'arco centrale, Gesù entra nel nostro orizzonte di peccato e d'infelicità, percorre le nostre strade, calpesta gli stessi ciottoli, si fa compagno delle nostre lacrime. Vincitore della morte, trafigge la nostra cecità di creature, la corazza del nostro peccato con la luce della Risurrezione.
Una luce che feconda il terreno arido della nostra umanità facendola germogliare. Il canto perfetto di Dio scende dagli spazi infiniti dell'eterno e s'innesta col canto spesso imperfetto dell'uomo e del creato, promovendolo ad una pienezza e una bellezza inattesa.
Ecco, allora, quasi per un'incontenibile spinta, il convergente di immagini, colori, suoni verso il centro, dove la natura assume le tinte calde, le note melodiose di una realtà che giunge a maturazione. Questo sfondo di natura generosa potrebbe raffigurare la Valle del Cedron, segnata dal passaggio di Gesù, che vi discese prima di salire al Monte degli Ulivi.


Le figure

Nel piano delle figure, è rappresentato Gesù come centro dell'universo, che riassume in sè tutta la storia umana con le
sue grandezze, i suoi travagli, le sue luci, i suoi tradimenti.
Attorno a Gesù ci stanno gli Apostoli. Le emozioni intense dei personaggi ritratti sono descritte con realismo fortemente
espressivo attraverso la definizione precisa delle fisionomie e l'attenzione alle sensibilità personali.

Gesù

Per Gesù, il pittore ha usato due tradizionali colori simbolici: il rosso che esprime la divinità, ma è anche il colore dell'espiazione; il blu che indica l'umanità, ma un'umanità presaga di cielo.
Cristo ha la tunica rossa, perchè è Dio, ma indossa un mantello blu, perchè si addossa, prende su di sè l'umanità.
"Il Figlio di Dio si è fatto Figlio dell'uomo, perchè il Figlio dell'uomo divenisse Figlio di Dio". La divinizzazione è l'opera più grande che Cristo continuerà a compiere lungo i secoli con il dono dell'Eucaristia. Nell'originale greco del vangelo di Giovanni, Gesù è presentato come il pastore kalos, cioè il pastore bello. Una bellezza perfetta che esprime amore e bontà. E così appare in quest'ultima cena.
Il pittore "vede" interiormente questo volto mirabile. Un volto giovane, tenero, puro, disarmato, eppure intenso. Lascia trasparire la serenità, l'armonia e la fermezza della sua scelta di fedeltà al Padre e agli uomini. Il biancore della pelle richiama quello dell'agnello mite e innocente; irradia una luce che emerge anche dalla tunica.


Giovanni

Al fianco di Gesù, alla sua sinistra per chi guarda, ecco l'apostolo Giovanni, "il discepolo che Gesù amava", facilmente riconoscibile dal capo reclino sulla spalla del Maestro, in posizione di totale abbandono. La sua figura pare quasi fondersi con quella di Gesù.
E, in effetti, il Vangelo audacemente dice: "Era sul seno di Gesù", a significare un'intimità amicale molto profonda, quasi un’immedesimazione. Il volto ha un’espressione di grande dolcezza; di tenera, devota confidenza che pare chiedere, e allo stesso tempo dare, rassicurazione e conforto. La consuetudine del tempo trascorso con lui, le parole udite, gli insegnamenti accolti e non ancora del tutto compresi, il mistero della sua umanità e della sua divinità, l’annuncio della morte ormai prossima: tutte queste emozioni vibrano nel suo cuore. Attendono la risurrezione di Gesù e il dono del suo Spirito per divenire realtà viva, trasformante, coinvolgente. Lo sguardo penetrante rivela la caratteristica della sua indole che è l’intuizione, quel dono che gli permette di vedere Gesù, pur nella nebbia del mattino e da lontano. Egli è il discepolo che cammina verso la pienezza, è colui che coglie i pensieri del cuore di Cristo, che si lascia amare fino in fondo da Gesù e sa darne testimonianza nei passi quotidiani di una lunga vita.


Pietro

Alla fresca giovinezza di Giovanni, eppure grave, spiritualmente adulta, si contrappone la maturità fisica di Pietro.
La mano dell’apostolo ha lo stesso movimento di quella di Gesù che dice: "Offro la mia vita per voi!" L’apostolo di rimando: "Sono pronto a dare la vita per te".
Ancora una volta, con la sua istintività focosa e generosa, Pietro vuole imitare Gesù, come quando ha tentato di emularlo camminando sulle acque, ma ben presto si è lasciato cogliere dal panico.
Anche lui "camminerà sulle acque" delle difficoltà e delle tribolazioni contro la Chiesa, ma solo quando avrà imparato a lasciare agire Gesù nella sua vita, ad accettare la croce, a non pretendere di sostituirsi a lui, ma a desiderare con tutto se stesso la sua gloria. Cioè quando sarà cresciuto nella fede: un cammino lungo, fino alla luce della Pasqua, fino al prodigio della Pentecoste. Ora vorrebbe seguire il Maestro nel suo percorso di donazione, dichiarandosi senza esitazioni, dubbi, incertezze. I suoi occhi hanno il bagliore vivace di un animo impetuoso, appassionato, sincero nelle promesse, eppure già si preparano i tentennamenti, la paura e il triplice rinnegamento, che sarà fonte di tormento, di sofferenza, ma scenderà anche in lui come lavacro purificatore.
Pietro esprime veramente tutti questi sentimenti appassionati e intensi. Nell’espressione dell’apostolo, carica di sofferta consapevolezza umana, prevale la concretezza del suo amore per Gesù, il suo fiducioso affidamento. "Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole che danno vita eterna!" (Gv 6,68).


Andrea

All'estremità sinistra vediamo l'apostolo Andrea, il cui nome (non ebraico, ma greco) significa virilità, valore.
E in effetti, i suoi tratti sono decisi, risoluti, indicativi, come quelli del fratello Pietro, di una fede generosa, che potrà anche subire la prova, ma avrà sempre il sopravvento sui dubbi, sulle remore, sulle incertezze. E in piedi, inclinato con tutto se stesso verso il Maestro.
Con la sua posizione decisamente protesa verso Colui che è divenuto il centro della sua vita, pare voglia ricordare che egli, per primo tra gli apostoli, ha incontrato Gesù e gli ha condotto Pietro. (Gv 1,41).
Le mani appoggiate saldamente alla tavola dicono la sua piena adesione a Lui. Il volto, assieme alla fierezza della sua scelta radicale, rivela anche l'umiltà. Egli farà da tramite discreto tra Gesù e i "gentili" che vogliono conoscerlo. Ma preferirà nascondersi richiamando in questo l'atteggiamento del Battista che, una volta preparata la strada a Gesù, si ritira, perché - diceva -: "Lui deve crescere e io diminuire".
Nella moltiplicazione dei pani, segnalò al Maestro il ragazzo con i cinque pani e i due pesci, destinati a diventare nelle mani di Gesù cibo per quella grande folla al suo seguito. E lo stesso Andrea diverrà veramente pane spezzato.
Nel Martirologio si racconta che subì una gravissima flagellazione e fu appeso in croce, sulla quale sopravvisse due giorni, istruendo il popolo. Dopo aver pregato il Signore di non permettere che fosse deposto da essa, fu circondato da un grande splendore, cessato il quale morì.


Giuda Iscariota

All'estremità opposta, al termine del terzo arco, giganteggia il traditore, Giuda.
All'amore e al servizio si oppongono la menzogna e l'infedeltà. E' l'unica nota dissonante nel gruppo idealmente ed armonicamente rivolto verso quell'irresistibile centro di attrazione che è Gesù. Staccato dalla tavola, volge le spalle a Gesù e agli amici con il rifiuto nello sguardo e nel cuore. Eppure sul suo viso cala già l'ombra del rimorso e del tormento interiore.
Le tinte scure del volto gli conferiscono una tensione altamente drammatica. Si avviluppa nel mantello nel tentativo di nascondere il frutto del suo peccato, o forse per darsi sicurezza e determinazione nel portare a termine l’opera intrapresa. Il gesto è per lui ormai irrinunciabile, la decisione è assunta ma, se nasconde con cupidigia la borsa del denaro, ne sta già pagando tutto il prezzo.
La lacerazione da Gesù e dai suoi amici lo condurrà gradualmente alla desolazione estrema, al non-senso di una vita tutta riferita a sé. Dopo il godimento caduco della ricompensa per il suo tradimento, precipiterà nel gorgo del male, di cui ha subito la seduzione. Egli ha mangiato il boccone che Gesù ha intinto per lui. Da parte del padrone di casa è questo un gesto di ospitalità, di amicizia, di comunione, un gesto che cerca di vincere l’odio con l’amore, le tenebre con la luce. Giuda vorrebbe forse esprimere parole di congedo non definitivo, lasciare una possibilità di ritorno, stornare da sé un giudizio di condanna.
Anche a noi comunica qualcosa: che tutti noi siamo sempre capaci di tradire l’amicizia di Gesù.
Il nostro sguardo allora ritorna sul Maestro e, nell’intensità espressiva del viso, nell’enigma di quella dolcezza sublime, notiamo anche il palpito dell’emozione. "Gesù si commosse profondamente" (Gv 13,21-22).
Come davanti alla tomba di Lazzaro, l’amico morto. Ma qui, ancora di più, perché Giuda è morto spiritualmente.


Matteo

Ecco Matteo, seduto alla tavola, così come appariva al banco di esattore delle imposte, prima della chiamata di Gesù.
Subito dopo il suo perentorio "Seguimi!", l’apostolo aveva condiviso il pasto con il Maestro e con numerosi pubblicani e peccatori.
Anche lui, come Giuda, è stato un peccatore, ma il suo cuore, al primo incontro con il Signore, si è aperto incondizionatamente alla sua misericordia. Il perdono di Dio spalanca tutte le porte. E' possibile quindi giungere ad un grado molto alto di ingiustizia sociale e, in un attimo, sentire l’urgenza irresistibile di una risposta istantanea all’appello di Gesù.
Nel dipinto, il suo sguardo è vivacissimo e al tempo stesso pacato. Lascia trasparire come un luccichio dell’antica scaltrezza. Ma la sua intelligenza, prima piegata al calcolo, posta al servizio del potere romano, ora è solo rivolta all’accoglienza, alla gratitudine e alla testimonianza del dono ricevuto.
Nella mobilità dello sguardo brilla tutto il suo stupore di fronte al fascino di Gesù, alla potenza della sua chiamata (secco imperativo: “Seguimi!”) che ha rivoluzionato la sua condotta morale e la sua vita. La mano è sospesa, ormai staccata dal possesso dei beni terreni, librata verso l’alto nello slancio della sequela. Matteo è catturato da quell’Amore che regge il mondo e che gli ha cambiato il cuore. Ha compreso il messaggio straordinariamente sublime di quell’amore che, quando si piega sul malato e sui peccatore, diventa misericordia infinita.
Egli stesso si farà portatore della buona notizia del perdono di Dio dato ad ogni persona umana, un perdono che offre la possibilità di essere liberi, di staccarsi dalla soggezione ai potenti, dalla ricchezza, dal successo, dalla paura.
Quella prima emozione dirompente, che si è fatta subito adesione, sequela e testimonianza del dono di Dio. E il nome Matteo è già un programma di vita perché significa "dono di Dio".


Simone lo Zelota

Ecco Simone lo Zelota, che cinge in un abbraccio fraterno le spalle di Giacomo di Zebedeo, il quale, a sua volta, posa la propria mano sulla spalla del fratello Giovanni.
Simone è fiero nel volto, con lo sguardo bellicoso. La linea decisa della bocca e del mento ci rivela il suo animo ardente, il suo zelo per la legge e le tradizioni giudaiche, forse anche una sua militanza nel partito degli Zeloti, movimento nazionalista che svolse un notevole ruolo nella sollevazione dei Giudei contro i Romani. Del resto Gesù sceglieva i suoi apostoli dai più diversi strati sociali, e con orientamenti eterogenei.
Il contatto quotidiano con Lui, vitale e trasformante, accendeva in ciascuno di loro una luce interiore, incideva nel loro animo un lineamento dell’immagine di Dio. Una scintilla del suo Spirito, nella Pentecoste, deporrà in loro, col suo soffio bruciante, un’energia misteriosa.
E la forza della testimonianza, della donazione, per cui Simone, assieme a Taddeo, affronterà il martirio nella difesa del culto cristiano contro l’idolatria.


Giuda Taddeo

Giuda Taddeo sta all’altro lato della tavola, spalle allo spettatore, per cui si intravede a malapena il suo profilo.
Di lui non sappiamo altro, se non che seguì Gesù, in silenzio, ascoltando la sua parola e camminando per le strade polverose, prima della Galilea, e poi della Giudea. Tuttavia, nell’Ultima Cena, finalmente interviene esprimendo a Gesù un dubbio che forse da tempo gli rodeva il cuore.
"Disse a Gesù Giuda, non l’Iscariota: «Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?». Gli rispose Gesù: «Se uno mi ama, osserva la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui»." (Gv 14,22).
Gesù quindi gli fa presente che l’unica via per cui Dio possa rivelarsi agli uomini è la via dell’amore. Taddeo, in aramaico, significa "magnanimo, dal largo petto". La sua fisionomia spirituale è quella di un uomo buono, desideroso di credere e di amare. Nel dipinto è rivolto verso Gesù, preparando la domanda che lo assilla. Tutti noi possiamo ritrovarci in lui, quando la nostra fede passa attraverso quella salutare inquietudine che risveglia la nostra coscienza assonnata.
E sovente nella nostra domanda, come in quella di Taddeo, si annida già il seme della risposta e della verità.


Giacomo di Zebedeo

Tra Simone lo Zelota e Giovanni troviamo Giacomo di Zebedeo. Con gesto protettivo, cinge le spalle del fratello Giovanni.
La chiamata da parte di Gesù li aveva raggiunti entrambi mentre erano intenti a riassettare le reti sul lago di Tiberiade, e la loro risposta era stata altrettanto pronta e sollecita: "Ed essi, lasciato il padre Zebedeo sulla barca con i garzoni, lo seguirono" (Mc 1,19-20).
Con Pietro e Giovanni è tra i discepoli privilegiati, testimoni dei momenti più alti della vita del Maestro. Assieme a loro, assiste alla risurrezione della figlia di Giairo, alla trasfigurazione di Gesù e sarà poi presente all’agonia nell’orto del Getsemani. Attraverso tre stupefacenti esperienze, ha potuto intuire il segreto manifestarsi di Dio, e coglierne la bellezza e la forza intima.
Pronto e impetuoso di carattere come il fratello (Giovanni l’Evangelista), assieme a lui viene da Gesù nominato come "boanerghes", cioè "figlio del tuono". Basterebbe ricordare l’episodio del Vangelo di Luca in cui, di fronte alla mancata accoglienza del Maestro in un villaggio dei Samaritani, entrambi gll propongono: "Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?". Oppure quello, in Marco 10,35, in cui gli rivolgono un’ambiziosa richiesta: "...concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra".
Eppure, nel dipinto, i lineamenti di Giacomo, come quelli del fratello, esprimono solo una dolcezza mite, pacata, arrendevole. Ormai in lui si è prodotta quella trasformazione, per cui la primitiva veemenza del carattere, penetrata e trasfigurata dall’incontro con Gesù, è divenuta pazienza, coerenza, forza di testimonianza. Giacomo sarà il primo pastore della Chiesa di Gerusalemme e il primo martire.


Giacomo di Alfeo

Ecco Giacomo di Alfeo, che si trova in piedi accanto a Pietro tra il secondo e il terzo arco. Anche la sua mano, come quella di Pietro stesso e di Gesù, è appoggiata sul cuore, in un atteggiamento di offerta e a tempo stesso di compenetrazione nel mistero di amore insondabile del Maestro.
Il suo volto è dolce e profondo, carico di quella sicura affidabilità e sapiente moderazione di cui troviamo conferma negli Atti degli Apostoli. Dopo la sua liberazione dal carcere, sarà infatti a Giacomo che Pietro affiderà il compito di portare l’annuncio.
E sarà ancora lui che, durante il Concilio di Gerusalemme, intervenendo dopo Pietro, ribadirà l’universalità della salvezza, proponendo nello stesso tempo una sorta di compromesso pastorale d’ordine pratico, per facilitare la convivenza fra cristiani di origine giudaica e quelli di origine pagana.
E' lui di nuovo che accoglie Paolo di ritorno dal terzo viaggio missionario, e gli consiglia un gesto distensivo per non aggravare la tensione fra i cristiani giudaizzanti. Qui Giacomo di Alfeo è profondamente assorto, lo sguardo rivolto all’infinito che ormai lo inabita. Si legge in lui un distacco profondo ed esaltante dalle cose terrene, perché ha assimilato la lezione dal Maestro: "C'è più gioia nel dare che nel ricevere".


Filippo

Alle spalle di Giacomo di Alfeo, Filippo trattiene con una mano un lembo del suo mantello. Dal gesto trapela il persistere di un’incertezza, l’incalzare di un interrogativo. E infatti, proprio nel contesto della Cena, mentre Gesù pronuncia queste parole: "Se conoscete me, conoscete anche il Padre; fin d’ora lo conoscete e l’avete veduto", Filippo lo interrompe con l’improvvida richiesta: "Signore, mostraci il Padre e ci basta!".
Parole di un appassionato cercatore, che tuttavia denunciano anche l’immaturità della fede, avida di conferme concrete. Eppure Filippo è un uomo generoso, vicinissimo a Gesù e disponibile a farlo conoscere ad altri: come quando, assieme ad Andrea, annuncia al Maestro che un gruppo di Greci ha espresso la volontà di incontrarlo. E altrettanto efficace è il modo con cui vince lo scetticismo che Natanaele (Bartolomeo) nutre nei confronti di Gesù. Il volto è proteso verso Gesù ad accoglierne il benevolo rimprovero e ad ascoltare le sue altissime parole: "Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre... Non credi tu che io sono nel Padre e il Padre è in me?" (Gv 14,7-11).
Le ciocche scomposte, ai lati del viso e sulla fronte, suggeriscono una sua forte reazione emotiva all’annuncio del tradimento da parte di uno di loro. Al tempo stesso evocano i tratti di una persona fiera, vibrante di sentimenti, colma di passione per il messaggio del Maestro, ma non ignara delle persone e del mondo (il suo nome, in greco, significa infatti "amante dei cavalli").


Bartolomeo

Diversamente da Filippo. Bartolomeo tiene le mani saldamente ancorate alla tavola e sovrapposte in segno di conferma e di totale abbandono.
Dopo le riserve espresse con franchezza mentre si avviava al primo incontro con Gesù, la sua fede è divenuta ferma e tenace. Sappiamo infatti dal Vangelo di Giovanni che Bartolomeo-Natanaele, di fronte all'entusiasmo di Filippo che ha appena conosciuto Gesù e ne è stato irresistibilmente attratto, replica in modo sferzante ed ironico: "Da Nazareth, può mai venire qualcosa di buono?"; Ma Gesù, vedendolo venire incontro, stupirà gli astanti con un singolare elogio: "Ecco davvero un Israelita in cui non c'è falsità!". Per aggiungere subito dopo: "Prima che Filippo ti chiamasse, ti ho visto quando eri sotto il fico".
Ed ecco in Bartolomeo, sconcertato, dilagare la luce della fede che lo porterà fino all’attestazione gioiosa: "Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!". Ma è solo l’inizio, poiché Gesù lo invita a guadare ben oltre, verso l’esaltazione del Cristo sofferente e glorioso, verso lo scenario luminoso della Pasqua. Ecco davanti a noi un volto nobile, maturo, esprimente sincerità e onestà. Non c'è enfasi in lui, non vi sono gesti avventati.
Il drappeggio del mantello su entrambe le spalle gli conferisce dignità e autorevolezza; lo sguardo lascia intuire l’ascolto delle parole di Gesù e la loro interiorizzazione a livello profondo.
Tutto in lui è compostezza ed equilibrio, sicurezza e pace, quell’armonia interiore dell’uomo che non si è lasciato frenare dai propri pregiudizi, e ha saputo andare a Gesù, fondando la sua vita su quella roccia sicura che è Cristo.


Tommaso

Tommaso, seduto all’estremità della tavola, nel terzo lunotto a destra, è assorto e meditabondo. La sua caratterizzazione pittorica differisce nettamente da quella di Filippo. I gomiti sono appoggiati sulla tavola, forse per trovarvi sostegno morale e conforto.
La mano destra pare abbandonata sul mento che scompare dietro di essa quasi fosse risucchiato. Dal volto scarno, spiccano il naso affilato ed aquilino e gli zigomi. La ridda dei pensieri scava solchi profondi sul suo viso e traccia zone d’ombra.
Si protende verso Gesù, che sta preannunciando la sua prossima dipartita e gli obietta: "Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?". Parole incerte, dubbiose, ma che conducono Gesù a rivelare agli apostoli l’intima unione tra lui e il Padre.
Parole fortemente contrastanti con altre da lui generosamente pronunciate, quando Gesù, in un momento ormai critico per la sua vita, aveva stabilito di andare a Betania per risuscitare Lazzaro. Tommaso, senza esitazione alcuna, aveva rivolto ai suoi amici l’esortazione a seguirlo, pur nell’eventualità di subire assieme al Maestro una sorte tragica: "Andiamo anche noi a morire con lui!". Tuttavia il dubbio lo accompagnerà anche dopo la Risurrezione di Gesù per cui, alla testimonianza degli apostoli che gli riferiscono di averlo visto, opporrà la nota frase incredula e saccente, dicendo di essere disposto ad accogliere la loro testimonianza, soltanto se controllerà fisicamente in lui i segni della passione.
Si arrenderà al Signore, otto giorni dopo. Gesù, con infinita condiscendenza, lo inviterà a toccare le sue piaghe, e lo porterà alla luminosa confessione di fede: "Mio Signore e mio Dio!". Con tensione sofferta e sforzo quasi spasmodico della mente e del cuore, Tommaso vorrebbe aderire totalmente a Gesù, ma inciampa nell’ostacolo del dubbio, del limite personale. Così ripiegato su se stesso, l’apostolo si dibatte fra il desiderio dell’abbandono e la necessità tutta umana di prove concrete. Ora la fede è ancora per Tommaso fatica, rovello, ricerca, tragitto nel buio. Diverrà poi dialogo con una persona che per prima ha rotto il silenzio, adesione all’essere intero di Dio, incontro con la sua grazia. Infine, attesa di intrecciarsi al suo mistero in un nodo di luce.


I simboli

I simboli sono legami vivi: associano i diversi piani della realtà.
Sono anche rivelazione del divino, benchè la loro luce non possa illuminarlo o esaurirlo completamente.

L'uva

Nell'arco sinistro, accanto a Matteo, spiccano grappoli d'uva dai chicchi turgidi e maturi. Uva non ancora spremuta, perché il sacrificio di Gesù consumato sotto il torchio della croce non è ancora compiuto.
L'insieme degli acini e la presenza della brocca colma di vino suggeriscono l'unità eucaristica ad opera del sacrificio di Cristo sulla croce: molti acini, una sola bevanda. I tralci da cui pendono i grappoli ci ricordano le parole di Gesù:
"Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano" (Gv 15,5—6).


Il calice ed il vino

Le tre coppe tutte simili, sulla tavola, richiamano le diverse fasi del rituale della pasqua ebraica. Gesù, infatti, celebra la Pasqua con gli apostoli, unito al grande popolo d'Israele, che celebra la sua liberazione. Ma decisiva per lui sarà una sola coppa, la propria, che farà circolare fra tutti i dodici, come segno della Nuova Alleanza nel suo sangue (è quella che appare accanto alla mano di Gesù). Tutti bevono da un unico calice, cioè attingono tutti insieme la propria vita a un unica fonte, a un unica sorgente.
Nella Bibbia il calice stesso è di per sé un simbolo speciale, che significa la sorte individuale, il progetto che Dio ha sull'uomo, la prova che deve attraversare, le gioie che Dio gli riserva.
In quel callce, c'è il vino. Il vino, in tutta la Bibbia, è segno di gratuità, di gioia, di amicizia, di esultanza, di pienezza di vita.
Questa gioia però nasce dal sacrificio: il vino suppone il sacrificio dei rigogliosi grappoli d'uva spremuti nel tino. Quindi il calice ha questo significato: è la sorte di Gesù che viene assunta e condivisa dagli apostoli.


Il pane

Ecco ora il pane nelle mani di Gesù che si appresta a spezzano. Il pane è cibo per gli uomini, simbolo riassuntivo di tutta la nostra esistenza. Nel pane c'è la natura, ma c'è anche la storia dell'uomo: la sua fatica, il suo lavoro, l'attesa, la pazienza, l'abilità, la gioia.
Su quel pane Gesù pronunzia la benedizione, fa scendere su questa umile realtà umana la forza vitale di Dio stesso, per cui quel pane unisce a Dio quanti lo mangiano.
"Essendo uno solo il pane, noi siamo un corpo solo sebbene in molti, perché partecipiamo tutti dello stesso pane." (1 Cor 10, 17).
Con questo pane, Gesù dona se stesso, perché il pane non è una semplice allusione al suo corpo, ma diventa la persona stessa di Gesù.
Quel pane spezzato è un invito rivolto agli apostoli a ripetere il suo gesto e un appello perenne, ripetuto a noi, perché spezziamo la nostra vita in tanti gesti di amore. Gesù assume il pane e il vino per esprimere non soltanto la sua morte, ma anche il suo donarsi in cibo agli uomini, per incontrarsi con loro nella festosità di un banchetto, di cui quegli elementi al tempo stesso sono simbolo e realtà.


I fichi

Accanto a Pietro, un vassoio colmo di fichi. Anche questo frutto, nelle varie culture, ha assunto diversi significati. I rabbini comparavano spesso il fico, coi suoi dolci frutti, alla donna. Il Talmud, il testo fondamentale delle tradizioni giudaiche, identifica nel fico l'albero della conoscenza del bene e del male (Gn 3,7).
Un albero sacro nel culto greco a Dioniso e a Demetra. Anche Budda, secondo la tradizione indiana, fu illuminato sotto una "ficus religiosa". Assieme alla vite, è simbolo di pace e di benessere.
"Giuda e Israele erano al sicuro: ognuno stava sotto la propria vite e il proprio fico durante la vita di Salomone." (IRe 5,5).
Rimanere sotto l’albero ombroso del fico, nella Scrittura, era una postura di chi stava in ascolto orante della parola di Dio. Forse proprio a questo allude l’incontro di Bartolomeo (Natanaele) con Gesù.
"Natanaele gli domandò: «Come mi conosci?». Gli rispose Gesù: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico»." (Gv 1,48).
Il fico è anche parabola per riconoscere il regno di Dio che, con la venuta di Gesù, trova la sua feconda realizzazione.
"Dal fico poi imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi, quando vedrete tutte queste cose, sappiate che Egli è proprio alle porte." (Mt 24,32-33).


Le uova

Dopo i fichi, un piatto d'uova. Con il simbolo dell'uovo, arte, filosofia e religione si sono avvicinate al mistero ineffabile della vita e delle sue diverse manifestazioni. La maggior parte dei miti sull’origine del mondo immagina l’universo in forma di uovo o come originato da un uovo.
Già in alcune credenze del paganesimo, il cielo e la terra erano ritenuti metà dello stesso uovo, e le uova erano il simbolo del ritorno della vita. Gli uccelli infatti si preparavano il nido d’amore e lo riempivano di uova: a quel punto tutti sapevano che l’inverno e il freddo erano ormai passati.
Simbolo della vita in formazione, della fertilità e della perfezione, l’uovo racchiude al suo interno una molteplicità di significati.
Rappresenta non solo Dio che crea, ma soprattutto che continuamente ricrea secondo una ciclicità temporale ben nota agli antichi nel campo delle civiltà agricole.
Cristo stesso è il simbolo per eccellenza della rigenerazione. Egli porta in sé il seme non solo della creazione, ma anche della rinascita dell’uomo caduto nel peccato.
Nell’arte cristiana, quindi, l'uovo è il simbolo della Risurrezione.
Il suo guscio rappresenta la tomba dalla quale esce un essere vivente.
Nell’uovo c’è il principio della vita, c’è la VITA, cioè Gesù Cristo che un giorno sboccerà alla luce. Da queste convinzioni è scaturita la festosa tradizione di dipingere e porre sulla tavola pasquale le uova benedette.


I melograni

Ecco ancora altri elementi con una forte e variegata valenza simbolica: i frutti del melograno, di cui alcuni sul vassoio ed altri sparsi sulla tavola.
Il melograno è una delle piante conosciute e utilizzate dall’uomo da più lunga data. Simbolo di fertilità e di ricchezza proprio per il notevole numero di grani contenuti al suo interno. Nel linguaggio floreale, per il suo colore acceso, esprime amore ardente. Per i suoi chicchi rosso scuri, sanguigni, è simbolo di fecondità e di unità.
Il melograno, quindi, è assunto come immagine della forza totalizzante dell’amore. Ma l’amore umano è qui rappresentativo dell’amore di Dio per il suo popolo, dell’alleanza che ha stretto con lui, nonché dell’amore di Cristo per la sua Chiesa.
Il frutto, per il suo spaccarsi allorché maturo, ricorda il cuore di Gesù Crocefisso ed è emblema della carità.





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